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mercoledì 7 dicembre 2011

Ministero in armi · DiariodelWeb.it


Ministero in armi · DiariodelWeb.it

ROMA - Le spese militari non si toccano e i gruppi di interesse legati a quella inesauribile fonte di finanziamento pubblico non hanno nessun motivo di preoccupazione. Il piano «lacrime e sangue per salvare l'Italia», illustrato da Monti con dovizia di particolari e continui richiami al dovere inderogabile di accettarlo senza tante storie, non prevede infatti nessun sacrificio su quel versante. D'altra parte non c'era da dubitarne: perché altrimenti avrebbero chiamato a ricoprire la carica di ministro della Difesa un militare del calibro e del rango di Giampaolo Di Paola?

L'ammiraglio - va detto – non è il primo militare chiamato a rivestire quel ruolo nella storia della Repubblica. Nella XII Legislatura, dal 17 gennaio 1995 al 17 maggio 1996, durante il Governo Dini, la responsabilità della Difesa fu affidata a un altro generale: Domenico Corcione, generale di Corpo d'Armata, già capo di Stato Maggiore della Difesa tra il 1° aprile del 199° e il 31 dicembre del 1993. Quella fu anche la data del suo collocamento in ausiliaria per superati limiti di età. Dunque Corcione, quando ricevette l'incarico di ministro, era, almeno, un militare più o meno a riposo, nel limbo dell'ausiliaria, al contrario dello status di cui gode Di Paola, tuttora in servizio e all'apice della carriera. Infatti, dopo essere stato fino al 2008 capo di Stato maggiore della Difesa, l'ammiraglio è stato chiamato, con l'aperto e determinante appoggio di Washington, a svolgere il ruolo di Presidente del Comitato Militare della Nato e proprio in tale ruolo, al momento della chiamata al Governo, si trovava nel teatro – ancora di guerra – dell'Afghanistan. Sole 24 Ore, il giornale di Confindustria, ha anche scritto che il nome di Di Paola per l'incarico di ministro è stato suggerito sempre da Washington.

Non dunque un militare qualsiasi né soltanto un personaggio con buone credenziali, chiamato a ricoprire un ruolo meramente tecnico. Al contrario uno che sa bene quello che non deve essere tagliato e le ragioni di ciò. Nella sua prima audizione in qualità di ministro di fronte alle commissioni congiunte di Camera e Senato, il nuovo ministro ha illustrato le linee guida del suo programma, incentrate sul tema - ricorrente negli ambienti militari - della «dismissione del patrimonio immobiliare delle caserme». Ma niente ha detto né soprattutto ha intenzione di dire, sul taglio delle spese militari, soprattutto sul lato degli armamenti. In questo - bisogna dirlo – è sostenuto tout azimut dalla solerzia bipartisan dei parlamentari delle due commissioni. La parte senatoriale, in particolare, lo ha esortato a tener fede gli impegni già presi dal Governo Berlusconi per la spesa di 502 milioni di euro che dovranno servire - gli hanno ricordato – per sistemi d'arma adeguati a meglio tutelare la sicurezza dei soldati italiani in Afghanistan. Ma oltre alle spese per gli annessi e connessi di una missione militare come quella in Afghanistan, che non finisce mai e dovrebbe invece finire subito, nella audizione il nuovo ministro non ha neanche accennato al pesante fardello lasciato in eredità dalle precedenti maggioranze, comprese quelle di centrosinistra, in materia di armamenti. Il che significa in particolare la messa in bilancio della spesa di 15 miliardi di euro per l'acquisto di 131 cacciabombardieri F35 - aereo aria terra decisamente da guerra – e la spesa già avviata dall'Aviazione militare per l'acquisto di circa cento caccia Eurofighter Typhoon, per qualcosa come dieci miliardi di euro.



Di Paola ha a che fare direttamente con la partita degli F35. Per due motivi, assai significativi l'uno e l'altro. Il primo va ascritto alle responsabilità dirette che via via l'ammiraglio ha assunto nel corso della sua carriera: nel 2002, come direttore degli armamenti, Di Paola firmò infatti il memorandum d'intesa che legava l'Italia al programma del caccia statunitense Joint Strike Fighter (F35). Vennero così poste le basi del contratto tra Finmeccanica e Locheed Martin, la ditta statunitense a cui è intestato il programma. Il secondo motivo è invece connesso alla concezione strategica di Di Paola, alla sua idea di come vada sfruttato lo strumento militare. In sintonia con gli anglo-americani, Di Paola è sostenitore della capacità di «proiezione» dell'azione militare in giro per il mondo, di movimentazione rapida delle forze armate e dunque dell'impiego privilegiato delle forze d'oltremare e, insieme, dell'adeguata strumentazione in materia di armamenti. Nato docet, in Afghanistan e in Libia.

E' chiaro che Di Paola, per altro in non piccolo conflitto di interesse nel suo nuovo ruolo, non taglierà proprio nulla né seguirà neanche in minima parte l'esempio del governo conservatore britannico che all'inizio di quest'anno ha deciso un serio piano di riduzione delle spese militari .

Ma è altrettanto chiaro che di fronte alle scelte «lacrime e sangue» del governo Monti, di fronte al fuoco ancora una volta concentrato sulle fasce medio-basse della popolazione, di fronte ai sacrifici a senso unico, la proposta di taglio alle spese militari che Sel porta avanti - in sintonia con movimenti e associazioni pacifiste da sempre impegnate su questo terreno – può acquistare un significato che va oltre quello tradizionale - ovviamente di grandissimo valore - di opzione pacifista. Può cioè crearsi l'occasione di una grande discussione pubblica sul modo di impiegare le risorse, sull' agire secondo alcuni criteri e non altri, su come la quotidianità dell'esistenza, la vita delle persone, il futuro dei ragazzi e delle ragazze debbano essere messi al centro quando si discute di conti e risorse pubbliche.

Insomma una partita che vale la pena di giocare. Mai come in questo momento.

Elettra Deiana

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